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Apr, 2020

Appunti di un viaggio in Kenya di Giuseppe Ragogna, autore e volontario

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Inauguriamo questa rubrica dedicata alle testimonianze di solidarietà nel mondo, con il prezioso racconto di Giuseppe Ragogna sull impegno di Suor Raffaella, della Congregazione delle Figlie del Beato Caburlotto, nella gestione delle emergenze nel dispensario di Sirima.

Grazie Giuseppe e grazie a Suor Raffaella!

Dalla parte di donne e bambini quando di può morire ancora di parto.

Annie ha il viso da bambina, un po’ sciupato. Fa tenerezza. Non toglie lo sguardo dalla sua creatura appena nata.
Sussurra che la chiamerà Stephane. Ma avrà ancora un po’ di tempo per decidere il nome. In Africa, si preferisce attendere che tutto sia andato per il verso giusto, prima della registrazione anagrafica.

L’attesa è quasi un rito scaramantico, in luoghi dove il tasso di mortalità infantile è molto elevato. Una nascita dovrebbe rappresentare ovunque un lieto evento, da festeggiare. In Africa no, perché di parto si può ancora morire. Tutto è più complicato, in particolare nelle zone dove mancano le condizioni minime di sicurezza.
Le distanze tra i villaggi e le strutture sanitarie e le abitudini di alcune tribù indigene di affidarsi a levatrici un po’ improvvisate, aggravano decisamente la situazione.

Trovo Annie sdraiata su un lettino del piccolo ospedale di Laisamis, un posto sperduto ai margini del deserto di Kaisut, in una terra spigolosa nel nord del Kenya, sulla strada per Marsabit verso il confine con l’Etiopia.
La ragazza ha camminato per ore, sotto il sole cocente, per raggiungere il piccolo ospedale fondato dalla diocesi e affidato  alle suore della congregazione delle Dimesse.
Sister Sara (sono chiamate così le religiose in Africa) coccola madre e figlia e sorveglia amorevolmente altre cinque donne ricoverate in attesa del lieto evento: “Le teniamo qui in osservazione per evitare a loro eccessive fatiche e inutili stress”.
Siamo ancora lontani dall’attuazione concreta del diritto universale alla salute, sancito dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite. Mancano le risorse, ma non l’umanità.

Dove ci sono le missioni sono stati realizzati dei poliambulatori che gestiscono le varie fasi della maternità e, nel caso di parti precoci, svolgono la funzione di presidi di emergenza quando l’ospedale è troppo lontano.
Anche il personale sanitario si adatta a ogni necessità: non sempre c’è un medico in pianta stabile. Il più delle volte,  sono proprio le suore che si occupano della gestione di questi posti di frontiera. Quando serve, loro sanno “ricamare” anche più di  qualche punto di sutura chirurgica.
Hanno fegato, talvolta sanno trasformarsi in ostetriche scrupolose. Conoscono le realtà più difficili, camminano in punta di piedi  a fianco delle comunità locali, ne rispettano le culture senza imporre nulla.
Hanno acquisito così autorevolezza e fiducia, tanto da far capire l’importanza della prevenzione nella cura della salute anche alle persone più vicine agli sciamani delle tribù.
Sono degli angeli che si muovono con sensibilità nel fango della miseria e della sofferenza.

Ogni struttura missionaria ha le sue suore che si sobbarcano compiti delicati: coccolano i neonati, invogliano i giovani a studiare e  accompagnano gli ammalati fino all’ultimo respiro. Vedono in faccia la nascita e la morte. Guai se non ci fossero.
In una delle piccole strutture sparpagliate sugli altopiani centrali del Kenya, a Sirima, nella missione fondata dalla nostra diocesi, lavora suor Raffaella, originaria di Conegliano, ma conosciuta anche a Porcia, dove ha lasciato dei bei ricordi come insegnante all’asilo. Fa parte della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe del Caburlotto.

La trovo al poliambulatorio, a dispensare consigli e sorrisi. Dalle sue parole, sempre essenziali, si coglie la sensibilità che le religiose manifestano al fianco di donne e bambini, che sono i due anelli deboli delle comunità africane.
La suora racconta con delicatezza le fasi del duro lavoro, arrossisce quando riceve il giusto ringraziamento per la gestione di un’oasi di umanità.
Anche nel suo presidio sanitario emerge la particolare attenzione ai problemi della maternità e, successivamente, della crescita adolescenziale. Non c’è pausa nell’attività, neanche quando la struttura è chiusa, perché le chiamate possono arrivare anche nel cuore della notte, creando delle piccole emergenze.
Capita di veder accendersi in pochi minuti le luci della sala parto, un po’ improvvisata: la partoriente arriva esausta, dopo un viaggio tormentato su strade dissestate.
“Quelle povere donne giungono con ogni mezzo – allarga le braccia e sorride – anche trasportate in motoretta o in carriola”.
Arrivano spesso dai punti più remoti delle savane e si fermano a Sirima, perché l’ospedale di Nyeri è troppo lontano.
Il dispensario si rivela spesso un’ancora di salvezza. Non resta che potenziarlo.
Suor Raffaella indica l’incubatrice ancora imballata: “L’apparecchiatura è appena arrivata, come dono gradito di un gruppo
di volontari. Ci darà maggiore sicurezza”.

Appunti dal Kenya

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